In Italia l’amore per la pizza supera qualsiasi cosa.
Si, ma quale?
Come ben sapete il nostro bel paese ospita una delle più grandi e variegate culture gastronomiche al mondo, e il suo piatto simbolo non è certo da meno: ne esistono, su tutto il territorio, decine di declinazioni, anche se assimilabili ad una manciata di tipologie.
Le caratteristiche di queste ultime si discostano al punto da rendere impossibile l’applicazione di un criterio universale di giudizio, a meno di non generalizzare ampiamente come già abbiamo fatto.
Si rende però necessario un sotto-capitolo della seconda puntata de I Cinque Sensi, per far chiarezza sulle principali versioni italiane che il termine “pizza” offre agli affamati.
C’è il napoletano che la fa sottile e larga, a ruot e carrett.
C’è il partenopeo che vuol fare i numeri, gonfia il cornicione e la chiama canotto.
C’è il romano che fa teglie ripiene di ogni ben di Dio, con alveoli che sembran venuti fuori da uno scontro a fuoco con Clint Eastwood.
C’è il mago visionario che stende, cuoce, taglia in triangoli e li farcisce dopo averli aperti con la forbice, e gira pure il mondo con il suo bellissimo Trapizzino.
C’è il veronese che impasta solo con pasta madre, ed è talmente fissato da aver pure marchiato il progetto Figli di PastaMadre con l’hashtag #FDP.
C’è l’altro suo amico che ogni giorno tira fuori impasti e cotture diverse, rifacendosi a topping d’autore per finire il lavoro con una firma indelebile.
Segni, i loro, talmente distintivi da non rendere nemmeno necessaria la nomina dell’artista per capire di chi stiamo parlando.
Di questi tempi molti dei professionisti sono impegnati in una lotta (amichevole e non) per definire/ridefinire i vari stili di pizza, di regione in regione, ma sempre con una rinnovata attenzione verso la materia prima, farina o condimento che sia.
Noi però, che professionisti non siamo, ci limitiamo oggi a stagliare in questo “caos” benevolo una decina di macro-categorie che possano far luce su ciò che questi pozzi di genio sono stati e sono ancora capaci di offrire sulle loro tavole.
PIZZA NAPOLETANA
Lasciate ai fissati, ai nostalgici o ai maniaci della tradizione le diatribe sui natali della pizza, non siamo qui per parlare di questo.
Certo è che la Pizza Napoletana è una delle più conosciute, amate e simboliche del mondo intero, al punto che nel 1984 è stata fondata a Napoli l’Associazione Verace Pizza Napoletana (AVPN), il cui compito è quello di circoscrivere le caratteristiche originali di questa tipologia, al di fuori delle quali non la si può intendere come tale.
Inutile dirvi che, tradizione a parte, il disciplinare spesso e volentieri rischia di rimanere indietro in quanto a concetti come l’ammodernamento delle attrezzature, la ricerca verso nuove tecniche di impasto, materie prime e dispositivi di cottura.
Detto questo, concentriamoci sulle peculiarità: la Pizza Napoletana è un disco di pasta tondo e largo, particolarmente sottile nella parte centrale e con il cosiddetto cornicione molto gonfio e pieno d’aria, ottenuto grazie alla particolare tecnica di stesura di un panetto che va dai 250 ai 280 grammi.
L’impasto è realizzato tipicamente con farina di grano tenero 00 dalla forza che può variare tra i 240 e i 280-300W, un’idratazione tra il 55 e il 65%, oltre al 3-5% di sale e allo 0,1-0,3% di lievito di birra fresco calcolati sul peso dell’acqua.
Tradizione vuole che maturazione e lievitazione siano eseguite a temperatura ambiente, in un arco di tempo che varia dalle 6 alle 12 ore in base alla forza della farina e al quantitativo di lievito utilizzato, e che la cottura sia effettuata per mezzo di un forno a legna a temperature tra i 400 e i 450 °C, che permettono di ottenere un prodotto finito in 60-90 secondi.
Un impasto così elastico, steso nel giusto modo e cotto per mezzo di un calore così elevato contribuisce allo sviluppo del cornicione prima citato, ma anche a mantenere morbida la pasta, rendendo possibile la cosiddetta piega a portafoglio simbolo dello storico street food partenopeo.
In tempi così brevi inoltre gli ingredienti mantengono i profumi, la mozzarella fonde senza bruciare e il basilico aromatizza l’insieme rimanendo umido grazie al pomodoro.
Caratteristica imprescindibile dello stile napoletano è una valorizzazione convinta e mirata per la materia prima; le pizze tipiche sono semplici, ma in ognuna trasuda tradizione e qualità: il Fiordilatte di Agerola e il Pomodoro San Marzano dell’Agro Sarnese-Nocerino sono i vanti più osannati oltre ai topping preferiti dai clienti.
Del resto, unite a questi del basilico e dell’ottimo olio a crudo e vedrete che Margherita da signori.
Ultimamente sulle tavole campane appare, specialmente per mano di nuove leve, il volgarmente chiamato Canotto, nomignolo che indica una napoletana con un cornicione pronunciato e una parte centrale meno estesa.
Tale nuova usanza è stato motivo di accese dispute tra i pizzaioli, al punto che lo stesso Enzo Coccia ne ha smentito l’originalità, riportando l’usanza storica di alcuni quartieri napoletani di preparare pizze di diametro inferiore e con il bordo alto, a differenza dei quartieri popolari che stendevano di più l’impasto per dar l’impressione di realizzare una pizza più grande allo stesso costo: si parlava di doppi e past nel primo caso, a ruot e carrett nel secondo.
Polemiche a parte, i pizzaioli specialmente casertani vantano nell’ultimo periodo una ricerca rinnovata verso farine semi integrali, impasti indiretti e struttura differente, più scioglievole e simile a una sfoglia.
Sta a voi decidere se preferire una pizza che, alla fine dei conti, è per metà cornicione.
PIZZA FRITTA

Altro orgoglio napoletano, altro paio di maniche, altro patrimonio nazionale.
Se l’impasto ha caratteristiche del tutto simili al precedente, ciò che differenzia la pizza fritta è la cottura (ma dai??).
Il disco di pasta viene steso, condito e chiuso su se stesso, allargato a mezzaluna e fritto in olio ben caldo, in attesa di essere servito fumante al piatto o nell’iconico cartoccio.
Una gustosa variante consiste nell’adagiare, a cottura ultimata, dell’ulteriore pomodoro e della mozzarella sulla superficie.
CALZONE NAPOLETANO
Terzo must partenopeo, ben più conosciuto della già citata pizza fritta.
Ancora, il classico impasto viene steso e condito su una metà, per poi essere richiuso, allargato a mezzaluna e coperto con dell’ulteriore pomodoro e basilico, cotto infine a bocca di forno invece che in olio bollente.
Posizionare il calzone all’apertura del forno a legna serve a mantenere una temperatura inferiore necessaria per permettere la cottura di tutti gli ingredienti interni.
La farcitura tipica è composta da Pomodoro San Marzano, Fiordilatte di Agerola, Salame Napoli, Ricotta di Bufala Campana e l’immancabile basilico fresco.
SFINCIONE PALERMITANO
Rimaniamo nel profondo sud, spostandoci però in Sicilia, e precisamente a Palermo.
Lo Sfincione è un prodotto curioso, relegato allo streetfood regionale il cui impasto si presenta spugnoso, equidistante tra pizza e pane, e viene condito con un corposo strato di salsa di pomodoro cotta e aromatizzata, sarde, cipolla, formaggio grattuggiato, origano e olio extravergine di oliva.
PIZZA SICILIANA
La Pizza Siciliana così denominata ha poco a che vedere con la sorella partenopea, a partire dall’impasto: farina di grano tenero, strutto e sale.
Niente lievito.
Stesura a mezzaluna, farcitura corposa di tuma e acciughe e frittura croccante terminano il lavoro.
Altra specialità tipica è il Pizzolo, tradizionalmente ottenuto con l’impasto avanzato del pane, diviso in due panetti, steso in altrettante sfoglie e farcito a piacere; un tempo il ripieno veniva ottenuto con gli avanzi del pranzo, come da antica usanza contadina.
Oggi viene preparato rigorosamente con lievito madre, e accompagnato da ingredienti come biete e salsiccia, oppure crema di zucca gialla e scamorza.
PIZZA IN TEGLIA ROMANA

Saliamo al centro, e precisamente nella capitale, dove la pizza è riuscita a ritagliarsi un ruolo di tutto rispetto.
E con sacrosanto diritto aggiungerei.
La versione romana però differisce profondamente da quella classica napoletana. La Teglia Romana non viene stesa e cotta al momento dell’ordinazione, bensì preparata in anticipo e acquistata direttamente al banco di esposizione del locale.
Se l’embrione di questo particolare prodotto risale ai tempi del dopoguerra, è negli anni ’80 che la pizza in teglia ha i suoi veri e propri natali, quando l’esigenza di mantenerla sul bancone per alcune ore e riscaldarla successivamente spinse alcuni panettieri ad effettuare ulteriori studi per definirne le caratteristiche ricercate.
L’impasto è altamente idratato, con percentuali che variano dal 70 al 90%, per le quali si rende necessaria una farina di grano tenero di forza superiore (tra i 280 e i 330W).
Esistono ovviamente le dovute eccezioni: uno dei cultori più riconosciuti e amati del paese, Gabriele Bonci, è famoso per utilizzare soprattutto farro nelle sue pizze, pratica che ovviamente presuppone un’accurata conoscenza delle corrette lavorazione e dei tempi di riposo per ottenere un prodotto valido con percentuali di acqua così elevate.
Un 2,5-3% di sale, uno 0,5-1% di lievito e facoltativamente un 3% di olio sul peso della farina completano gli ingredienti dell’impasto, solitamente maturato in frigo dalle 24 fino alle 72 ore nel caso del grano tenero.
Una volta steso uniformemente sul piano rispettando l’aria sviluppatasi durante la lievitazione, l’impasto viene portato su una teglia di ferro blu e condito nel più svariato dei modi, per poi essere cotto in forni per lo più elettrici dove la platea viene impostata a circa 320-330 °C e il cielo a 250-280 °C.
Il risultato è un impasto che se preparato nella giusta maniera risulta croccante all’esterno ma morbidissimo e scioglievole al suo interno; la sezione è alveolata, strutturalmente uniforme e presenta le tipiche colonnine cristallizzate che in bocca conferiscono il cosiddetto crunch.
La farcitura, come accennato, sfrutta una così solida base per spaziare dalla semplicità alla ricercatezza: una pizza in teglia romana può partire da una margherita e arrivare ad accompagnare il magico e costoso trio: tagliata di manzo, misticanza e aceto balsamico.
PIZZA TONDA ROMANA
L’altra faccia della medaglia.
E’ tonda, ma anziché morbida è scrocchiarella.
A Roma o si va di teglia o di tonda croccante; famosissima e preferita anche al nord, è ottenuta con farine di grano tenero di forza medio-bassa (220-240W), a volte tagliate con del grano duro, idratazione del 55%, 3-5% di sale e 1-3% di lievito di birra sul peso dell’acqua.
Il disco di pasta viene steso sottile schiacciando anche i bordi, condito a piacere e infornato in dispositivi elettrici o a legna a temperature ben più basse di quelle necessarie per una napoletana, in quanto l’obiettivo è ottenere una struttura croccante su tutta la superficie.
PIZZA ALLA PALA
Last but not least tra i must romani, la Pizza alla Pala è un ben di Dio che conserva le caratteristiche dell’impasto idratato della sorella in teglia, ma viene steso a forma ovale, infornato per mezzo di una pala lunga in legno e cotto su pietra refrattaria in versione bianca o rossa.
Piacevolmente croccante all’esterno, alveolatissima, scrocchiarella ma scioglievole, la struttura più irregolare della superficie piena di bolle la rende più adatta a condimenti semplici ma efficaci.
PIZZA NEL RUOTO
Proveniente dalla radicata tradizione napoletana e saldamente ancorata all’immaginario popolare, la Pizza nel Ruoto è conosciuta in tutta Italia come Pizza al Trancio, diffusissima soprattutto al Nord e amatissima dagli studenti affamati.
Chiamasi ruoto una teglia metallica tonda dai bordi alti, che può venir realizzata in rame, alluminio o ferro.
L’impasto varia da quello classico napoletano ad uno ben più idratato simile al fratello romano. L’apporto di pomodoro e olio è abbondante per garantire una maggiore umidità superficiale e conseguentemente una shelf life maggiore della pizza, che può essere sia consumata al momento che acquistata al banco.
La cottura avviene a temperature ben più basse, tra i 250 e i 330 °C, rendendola perfetta per la replica casalinga.
Ottima calda, con il fondo croccante, condita spesso anche sul bordo la mozzarella adagiata negli ultimi minuti di cottura e resa filante dal calore della base; se ben realizzato il trancio è un prodotto di una piacevolezza immensa e dalla consistenza morbida e scioglievole.
Le farine utilizzate sono solitamente 00, la cui forza però può variare in base al gusto del pizzaiolo, da una medio-alta (280-330W) fino ad arrivare addirittura ai 350-400W, con conseguenti maturazioni che toccano le 72 ore; se i tempi di riposo sono rispettati, il risultato è a dir poco stupefacente.
A Torino è possibile trovare una simpatica e gustosa tradizione parecchio simile, quella del Tegamino, un impasto cotto in piccoli padellini, senza bordo, croccante e dal gusto generoso.
PIZZA GOURMET

Tralasciate l’attribuzione sdoganata e inflazionata del termine: per Gourmet si intende una cucina ricercata, nelle materie prime, nelle cotture e negli accostamenti.
Un piatto di poveri natali può, sotto la sapiente mano di uno Chef con i cosiddetti, trasformarsi in una vera e propria opera di alta cucina.
Vale per il mio amato Hamburger e si, vale anche per la pizza, mettetevi il cuore in pace.
Sfondando la barriera psicologica dei 5 euro del prezzo del rinomato disco di pasta, nella Pizza Gourmet convergono concetti come le farine macinate a pietra, il lievito madre, lo spessore più elevato e una consistenza più morbida, oltre ad un ricco topping sapientemente studiato tra sapori e giochi cromatici, a causa del quale il costo può lievitare anche fino a 35 euro.
Rinomata soprattutto nel veronese, chi pratica tali studi non si ferma agli impasti, ma sperimenta altresì diverse cotture come quella a vapore, tramite la quale è possibile ottenere un prodotto dall’incredibile scioglievolezza.
La famosa Aria di Pane di Renato Bosco, per intenderci.
Direi che di cultura ne abbiamo fatta abbastanza.
E voi, che pizza preferite?
Fonti:
Dissapore
Giovanni Tesauro
Gabriele Valdès
Enzo Coccia
Scatti di Gusto