Se parlare di un buon pane vi sarà parso più intuitivo e schematico, vi assicuro che trovare per la pizza la stessa linea guida può non essere così immediato.
Nonostante si abbiano infatti oltre 250 tipologie di pane in Italia, avete visto come poche ma peculiari caratteristiche siano oltremodo sufficienti a raggruppare prodotti di qualità.
Per la pizza tale discorso non può essere applicato.
Questo perché nella decina di stili che il nostro paese ospita vengono utilizzate dosi, tempi, maturazioni, stesure e cotture differenti a tal punto da non poter affrontare ad un metro di giudizio universale.
Ad esempio, è impensabile usare lo stesso criterio al tatto per attestare la buona riuscita di una tonda romana e di una napoletana: la prima è famosa per essere scrocchiarella, mentre perché la seconda possa essere piegata a portafoglio dovrà necessariamente essere più morbida e idratata.
Parleremo delle differenze tra gli stili più avanti, ma quel che mi preme oggi in questa seconda puntata della rubrica I cinque sensi è trovare un denominatore comune per rappresentare, appunto, una buona pizza, qualsiasi essa sia.
Al solito, partiamo dalle basi, da cosa dovremmo ricercare in questo prodotto, ormai vera e propria bandiera nazionale, e cosa invece troppo spesso ci troviamo di fronte.
Non nascondiamolo: il nostro piatto preferito ha affrontato negli ultimi decenni il doloroso tracollo da “tradizione” ad “abitudine”. L’italiano medio sembra essere nato e cresciuto con l’obbligo della pizza del sabato sera, ordinata nel locale più vicino.
Poco gli importa di informarsi su cosa determini la qualità del prodotto, quel che gli preme è che la consegna a domicilio sia rapida (“Sa, a me non interessa il ritardo, ma ci sono i bambini..”), che per lui ci sia la Tonno e Cipolle, la Marinara senz’aglio per la moglie a dieta, e l’immancabile Wurstel e Patatine (mi viene l’ulcera solo a nominarla) per i pargoli, che nove su dieci si pappano il topping lasciando il resto nel piatto.

Di nuovo ecco la schiera di maniaci della “dieta fai da te” alla carica, a sottolineare (ma che dico, a imporre!) il limite massimo di una pizza a settimana, rigorosamente senza mozzarella o altri ingredienti che possano danneggiare inevitabilmente la salute umana.
Il pomodoro è l’unico ospite ammesso in casa, su questo non si transige.
Chi mi conosce sa che non condivido per niente tali regimi di proibizionismo estremo; c’è differenza tra mangiare un pane vivo e un pezzo di cartone compresso, tra comprare una ben marezzata Ribeye Steak frollata non meno di 21 giorni e la “Fettina di Manzo Sceltissima” senza tracciabilità del banco del supermercato, o ancora tra una pizza il cui impasto ha rispettato i tempi di maturazione e un biscotto condito con le peggio porcherie.
Vi assicuro che per il vostro corpo è di gran lunga più salubre una Pizza e Mortazza uscita da mani capaci piuttosto che la Marinara senz’aglio fatta con i piedi, ed è ora che ve ne facciate una ragione: generalizzare non è MAI cosa giusta.

Di nuovo, vi prometto che tratteremo presto le questioni legate alla digeribilità e alla maturazione degli impasti, ma per il momento è importante riconoscere la qualità prima di ricercarla; studiare senza avere un obiettivo ben preciso equivale ad andare alla cieca.
E se vi ricordate, era proprio questa la premessa della rubrica.
Diamo quindi un breve sguardo a cosa i nostri sensi devono raccontarci quando siamo di fronte ad una fumante pizza:
- VISTA: il colore deve essere uniforme, l’esterno deve presentare bruciature ampie e diffuse; l’unica eccezione è rappresentata dalla pizza napoletana, dove il bordo viene definito leopardato a indicare l’effetto creato dalla combinazione di un’adeguata maturazione, presenza di aria nell’impasto ed elevata temperatura del forno. Inoltre una buona stesura si riconosce a prima vista, in quanto la superficie è irregolare ma liscia, senza grinze, strappi e con spessore uniforme.
Una cottura prolungata più del dovuto e ottenuta tramite temperature troppo basse rende l’impasto biscottato, un fattore ravvisabile dal colore bruno e dalla crosta disidratata.
Last but not least, la sezione deve essere alveolata e non compatta, con una struttura uniforme e ben sorretta. - UDITO: il pane canta, la pizza no. Il miglior prodotto del mondo è una nuvola anche al taglio, risponde al coltello e alla masticazione, ve lo assicuro.
- GUSTO: che si tratti di una napoletana, di una teglia romana o di una scrocchiarella, una pizza a regola d’arte dev’essere leggera e scioglievole al palato. La crosta è ciò che davvero differenzia le diverse tipologie, ma l’interno deve essere quasi impercettibile, sparire sotto il palato e regalare ineguagliabili sensazioni di godimento, segno di un corretto processo di maturazione.
Con il topping è poi un sacrilegio strafare: pochi ingredienti ma equilibrati in quanto a sapore e quantità; nessun ingrediente deve prevalere sul resto, ma costituire una scala graduale dove chi degusta riesca a percepire prima quello e poi l’altro componente della ricetta. - TATTO: gli errori riscontrabili al tatto fanno tutti riferimento ad una cattiva cottura o a un bilanciamento scorretto tra la composizione dell’impasto e la temperatura del forno; se non si va di pari passo con l’idratazione presente, la pizza può risultare tenace, tendere a sbriciolarsi o ancora divenire gommosa, segno che il quantitativo di acqua è stato mal gestito o la farina non era in grado di assorbire una tale percentuale.
- OLFATTO: anche al naso è importante che i sapori si susseguano in un crescendo di profumi e fragranze; odori troppo pungenti, residui di bruciature o ingredienti stracotti vengono subito colti ed amplificati dall’alta temperatura che disperde gli aromi.

Vi ho convinto?
La vostra pizzeria di fiducia non rispetta tali prerogative?
Beh, c’è poco da fare, il mio spassionato consiglio è quello di cambiarla seduta stante, ne va della vostra salute.
Del resto, l’Italia è una repubblica fondata sulla Pizza, conviene trattarla bene.
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